Quel birbante di Bramante4 min

di L'Obbiettivo

“Impara l’arte e mettila da parte”. Lo dicono sempre. Eppure l’arte non è facile da imbrigliare e da tenere in tasca. Non è che puoi ignorarla per andare da qualche amica più simpatica, ricordandoti di lei solo quando ti serve. L’Arte è proprio una personcina difficile. Difficile sì, ma bellissima. È proprio per presentarvi questo essere magico e imprevedibile che nasce la rubrica “Arte da parte”. Io non voglio informarvi (insomma, parliamoci chiaro, quasi sicuramente sarete più preparati di me), ma vorrei provare a raccontarvi, dal punto di vista di un’ignorante appassionata, tutte le volte in cui l’Arte si è fatta mettere da parte. È successo spesso, in realtà, ma non a tutti. Coloro i quali per indole o per talento sono riusciti a governare questa energia spettacolare e incontenibile, hanno scritto, alla fine, la Storia dell’Arte. E allora, partiamo.

Il nostro viaggio inizia con Donato, nato nel 1444 a Fermignano, in provincia di Urbino. Donato aveva il naso grosso e un nome che non suonava molto bene (Donato di Angelo di Pascuccio). Non si conosce il momento preciso in cui ha incontrato l’Arte, perché dei primi anni della sua vita non si sa quasi niente. Ad ogni modo, Lei lo colpì e lui cominciò a studiare. A quel tempo l’Arte era molto pignola e selettiva, e tanti scrivevano trattati su come conquistarla. Donato, ripeto, aveva il naso grosso, non poteva contare sull’aspetto fisico e doveva per forza farsi aiutare. Scelse Vitruvio, morto un bel po’ prima di lui, ma di moda in quel periodo, e Leon Battista Alberti, non il re della foresta, ma il re dei trattati sulla prospettiva. Il Ducato di Urbino in quel periodo era pieno di tanti posseduti dal suo stesso sentimento, e se di solito l’amore per qualcuno ci rende gelosi e competitivi, ogni tanto (non sempre, vedremo cosa combinarono Leonardo e Michelangelo) quello per l’Arte sprona alla solidarietà e alla condivisione. Per questo, il giovane Donato conobbe il Perugino e il Pinturicchio, e divenne allievo prima di Fra’ Carnevale e poi di Piero della Francesca. A trentatré anni (sempre un compleanno importante, no?), Donato ebbe uno dei suoi primi appuntamenti ufficiali con l’Arte, quando affrescò la facciata del Palazzo del Podestà di Bergamo. Dipinse sette finte nicchie, che ospitavano al loro interno “uomini d’arme e filosofi” alti circa due metri. Ci è chiaro, guardando queste immagini, quanto Donato avesse studiato: l’illusione della tridimensionalità è data da una costruzione ben precisa delle linee prospettiche, e gli elementi architettonici delle nicchie sono così particolareggiati e precisi da sembrare in rilievo. È probabilmente grazie a questo approccio così positivo con Lei che Donato si poté finalmente permettere un soprannome, il Bramante, con il quale oggi lo conosciamo.

All’inizio della sua scalata verso il successo, Bramante si occupava proprio di progettare gli scenari dei dipinti e gli spazi in cui si muovevano le figure. Era un mostro della prospettiva, avete presente quelli precisi alle medie che non sporcano niente quando disegnano con le squadrette, che hanno le righe sempre liscissime e le carpette pulite? Lui era uno di quelli. Arrivò a ottenere commissioni sempre più importanti, finché non si rese conto che aveva dipinto così tante volte e così tante cupole che forse avrebbe potuto iniziare a progettarle non solo per i personaggi dei dipinti, ma pure per le persone in carne ed ossa.

La precisione di Bramante non si dimostrò fastidiosa come quella dei bambini con le mani immacolate delle medie, altrimenti l’Arte lo avrebbe abbandonato in men che non si dica. Perché non era fastidioso? Perché Bramante era un birbante. Un furbacchione di quelli belli e buoni. La volpe astuta dell’architettura. Chiedetelo a San Satiro. A Santa Maria, presso San Satiro.

Santa Maria presso San Satiro si trova a Milano. In quella zona si costruivano luoghi di culto dal IX secolo. Quando, alla fine del Quattrocento, Gian Galeazzo Sforza decise di costruire lì una nuova chiesa, il lavoro si presentava scomodo e difficile. Per colpa di Contrada Falcone, una strada situata proprio alle spalle dell’area della futura struttura, l’unica pianta progettabile era quella a croce commissa. Per capire cos’è una pianta a croce commissa immaginate una T maiuscola. La gambetta in basso è la navata, il cappello, orizzontale, viene chiamato transetto. Nelle chiese a croce greca, invece, la pianta è più o meno così: +, la navata è interrotta a metà dal transetto, e la zona dopo la componente orizzontale è detta “coro”. Per quanto riguarda quelle a croce latina immaginate proprio la croce di Gesù: il transetto è posto ai due terzi della navata.

Dicevamo: Santa Maria presso San Satiro è a croce commissa.

Ora guardate una foto dell’interno della chiesa.

Prendetemi per scema.

No, amici, quello non è un vero coro. Quella profondità che vedete là, che vi viene da tuffarvici e percorrerla tutta per vedere meglio l’affresco, non esiste davvero. Sono solo 97 centimetri di profondità che il nostro birbante preferito ha decorato saggiamente con stucchi e dorature per farli sembrare una volta.

Il coro non esiste.

Ma Bramante è esistito, ed era un mostro della prospettiva. Io ve l’avevo detto.

Ad ogni modo, Bramante progettò anche la Basilica di San Pietro. Ideò per la chiesa una pianta a croce greca (dopo la mia precisissima e professionale spiegazione sapete di cosa sto parlando), coperta nell’intersecazione tra il transetto e la navata da una cupola, che doveva essere magnifica e imponente. Poi arrivò Carlo Maderno, architetto barocco che allungò la navata centrale e rese la grande cupola immaginata da Bramante e progettata poi da Michelangelo invisibile a tutti i credenti che entravano nella chiesa. Evviva.

Nel 1514 l’Arte che aveva messo da parte e la vita abbandonarono il nostro furbo nasone, che ancora vive nelle sue opere e tra le pagine dei libri di storia.

Chi sceglierà Lei, nella prossima puntata?

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