Chomsky e la funzione del linguaggio2 min

di L'Obbiettivo

Vi siete mai chiesti come sia possibile attuare la comunicazione? Da dove nasce questo immenso processo che ci permette di scambiarci l’un l’altro informazioni che, altrimenti, non riusciremmo a condividere? Qual è il meccanismo che lo rende possibile?

Partiamo dalla definizione generale del linguaggio. Esso è costituito da una serie di componenti, come gesti, segni o simboli, che dà modo di poter trasferire i dati da sistema a sistema.

Nell’accezione meramente umana del termine, la comunicazione verbale e non verbale è formata da tutti quei codici che consentono di formulare e tramandare messaggi da una persona all’altra ed è una capacità prettamente legata all’uomo. Una delle domande che dovremmo porci, comunque, si basa essenzialmente su come il nostro modo di pensare, di vivere, di agire ed il luogo circostante e circoscritto in cui viviamo, siano fattori che possano influire sul nostro sistema comunicativo.

In che modo il linguaggio è ambiguo? A correre ai ripari, sotto questo punto di vista, ci pensa Chomsky.Il suddetto è uno scienziato cognitivo e linguista contemporaneo, riconosciuto anche come il fondatore della grammatica generativo-trasformazionale, ovvero la grammatica di una lingua naturale, indicata come il più grande contributo alla linguistica durante il XX secolo.

Egli ipotizza che in ognuno di noi vi sia un dispositivo innato che garantisce l’acquisizione della facoltà linguistica. Tale attività, pertanto, è un processo insito che parte da un insieme di conoscenze ingenite utilizzate dalla persona per apprendere delle regole grammaticali, verificate successivamente grazie alla pratica. Questa competenza ci rende capaci di assimilare frasi mai udite con l’aiuto di alcune regole sintattiche e morfologiche già presenti nella nostra persona fin dalla nascita.

La questione diviene dubbiosa e confusa proprio nel momento in cui andiamo a stabilire una base sintattica sulla quale porre l’interpretazione di una frase. Vale a dire che, coniugando diversi elementi, come la nostra gestualità o l’intonazione utilizzata, una stessa espressione può divenire di vago significato e può possedere, dunque, una doppia interpretazione. Tutto ciò rende il nostro linguaggio facilmente fraintendibile e conduce lo studioso a teorizzare che la comunicazione non sia la principale funzione dettata dal linguaggio, ma che essa sia totalmente secondaria a quest’ultimo che è, in realtà, accompagnato da molte altre caratteristiche che fungono da contorno: anche il nostro semplice modo di vestire o d’indossare un capo, come una spilla, può far comprendere una particolare peculiarità che stiamo, contemporaneamente, esplicando a parole.

Tutto questo porta a determinare il linguaggio come organizzatore primario della diffusione dei dati sensibili che intendiamo trasmettere a chi ci circonda. Ma, quindi, qual è il posto principale che occupa il linguaggio all’interno di questa scala gerarchica? Si tratta, se non altro, di mettere in ordine i nostri pensieri, attraverso un processo mentale e psichico, che immagazzina così le informazioni più complesse ponendo il proprio presupposto su ragionamenti in principio slegati che, in un secondo momento, riescono ad essere combinati. Qual è la vera funzione della comunicazione?

Pensarci è già un primo passo, le conclusioni, poi, sono singolari e personali.

Jole Lorenti

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