Sulla nostra pelle3 min

di L'Obbiettivo

Oggi comincia per me una nuova avventura, l’apertura di una rubrica forse diversa dal solito, differente dalle precedenti. Si chiama “In viaggio nella borsa di J” e cercherò di raccontarvi ciò che accade intorno a me, attraverso i miei occhi ed i miei pensieri. Mi sono lasciata consigliare, mi hanno detto di scrivere di qualcosa che mi piacesse; invece io comincerò scrivendo di qualcosa che non mi è piaciuto per niente.

Ho diciotto anni e qualche giorno fa ho preso una scelta che per molti potrà sembrare banale, lo ammetto, ma non lo è stata. Ho deciso di guardare il film “Sulla mia pelle” riguardante la storia di Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009, durante la custodia cautelare. Forse un po’ tutti conosciamo la vicenda di Stefano, in fondo, ne hanno parlato tutti. Non sono qui a sentenziare, a dire cosa possa essere stato giusto o sbagliato, però voglio raccontarvi di come guardare 1h e 40 di film abbia voluto significare, alla mia età, prendere un atto di coraggio e guardare la realtà di uno dei fatti di cronaca nera che hanno stravolto la nostra penisola. Non ho visto un innocente, guardando la pellicola, ma un uomo a cui è stata tolta la dignità.

La dignità di potersi difendere, di potersi riscattare, di poter avere qualcosa in più dalla vita dopo aver scontato le proprie colpe.

La dignità di potersi reinserire, di poter dimostrare che alla fine del tunnel c’è una minima e fioca luce, ma comunque sempre presente. Io non lo so cosa possa scattare nella mente di un uomo per decidere che un vestito possa bastare a dividere la mente dal suo cuore, non capisco come si possa lasciare fuori dalla stanza di un casellario il fatto che anche lui possa essere figlio, fratello e zio rispettivamente di genitori, sorelle e nipoti che lo attendono a casa sotto un tetto caldo dove potersi riposare dopo nottate e giornate difficili.

Per tutto il tempo mi sono chiesta quando è stato deciso di potersi escludere dal resto per togliere lentamente e subdolamente la vita ad un altro essere umano. Per questo mi sono sentita piccola, piccola in un mondo dove puoi essere sbranato anche da chi ti dovrebbe difendere, se sei considerato il più debole, la giusta vittima, la preda, il drogato di turno che non merita perdono. E allora poi mi sono messa a letto ed ho pensato che c’è un sottile confine tra quello che è corretto e quello che ci mette un attimo a farti cadere nel baratro e fare in modo che da lì tu possa non uscire più.

Dopo ho pensato che a scuola devo aver studiato qualcosa di sostanzialmente simile al delirio di onnipotenza, secondo il quale l’uomo ha l’assoluto bisogno di comandare il male, di sconfiggerlo, di tenerlo sotto il suo controllo, perché questo lo fa sentire forte e potente. Per farlo si avvale del diritto di poter fare azioni che lo portano troppo lontano dall’eliminare un eventuale pericolo.

Alla fine mi sono accorta che tutto passava in secondo piano e che non riuscivo a chiudere gli occhi come avevano fatto in molti per tanto tempo. Una scena mi ha spaccato lo stomaco in due. Stefano, la notte prima di morire, ha espresso il desiderio di poter mangiare un pezzo di cioccolata. Forse è stato quello il momento in cui si è accorto che non sarebbe più tornato indietro, che non avrebbe avuto modo di vedere crescere i suoi nipoti, di non scambiare più nessun regalo di Natale con la sua famiglia.

In un altro estratto, chiede una bibbia ed ammette di non essere “credente”, ma “sperante”. La speranza, probabilmente, di essere tolto in tempo dallo strazio che stava subendo. Mi verrebbe da dire, Stefano, che la tua speranza oggi è stata accolta. Non sei più solo un “tossicodipendente”, non sei più soltanto “quello che è stato ammazzato dalle guardie”. Sei “Stefano”, come nel principio, non come quando hanno deciso che era necessario picchiarti, non come quando hai provato a far leggere a chi ti stava accanto la storia che avevi scritta in faccia e che nessuno ha voluto guardare.

Mi dispiace pensare che ci siano molti più “Cucchi” di ciò che si possa credere, mi dispiace che da un processo si passi ad una camera mortuaria dove viene messo il corpo esanime ed il volto tumefatto di un figlio come tanti altri, forse soltanto meno pronto a vivere la vita e la gioia che può contenere.

Io mi chiamo Jole, però potrei benissimo chiamarmi Stefano. Sulla pelle mi è rimasto qualcosa di diverso da un livido, da una vescica spaccata o da due vertebre rotte, ma rabbia, indignazione e tristezza

Mi chiamo Jole, ma mi sento un po’ Ilaria, Rita e Giovanni Cucchi.

Mi chiamo Jole e mi unisco all’opera straordinaria realizzata da Alessio Cremonini, Alessandro Borghi, Jasmine Trinca, Max Tortora e Milvia Marigliano e li ringrazio per avermi mostrato la realtà, con l’augurio che la possano vedere tutti.

Per Stefano: tutti i miei minuti di silenzio successivi alla presa visione dell’accaduto.

“Costole rotte, bottiglie rotte
questa notte suonerà
una sirena della polizia
l’ambulanza tarderà
come fa caldo in mezzo alle botte
della centrale di polizia
qualcuno non dormirà
qualcun altro andrà via”
Coez, Costole rotte.

Jole Lorenti

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