L’enigma della morte – La visione della fine attraverso i secoli3 min

di L'Obbiettivo
Da quando nasciamo la nostra unica certezza è che, prima o poi, moriremo. Vita e morte camminano una accanto all’altra, si rigenerano continuamente, sono madre e figlia, figlia e madre. La morte, irrimediabilmente, è ciò che accomuna ciascuno di noi. Eppure l’uomo non si rassegna ad essa, si domanda continuamente se la morte sia davvero la fine della vita o l’inizio di un’altra.

Secondo le popolazioni che si sono susseguite sin dall’inizio dei tempi, esiste, in noi, un’anima immortale. Per la maggior parte delle prime civiltà, ciò che contava era morire valorosamente in guerra, così da essere accolti nell’Aldilà. L’Aldilà era rappresentato da vari luoghi: per i Celti era il Tír na nÓg, l’Isola della bellezza, per i Norreni, invece, era il Valhalla, un’enorme sala dedicata ai caduti in battaglia. La visione della morte per gli Aztechi era molto più complessa. Il popolo Azteco, pur di assicurarsi la benevolenza degli dei ricorreva ai sacrifici umani. Da questo possiamo dedurre che importanza avessero gli dei: per gli Aztechi, tutto ciò che c’era sulla terra era frutto di maledizioni ed incantesimi, e la morte, così come per noi, era un mistero. Ci è rimasto un commuovente poema scritto dal principe Ayocuan, di Tecamachalco, che rispecchia i dubbi degli Aztechi riguardo il fatale destino umano, ne riporto qui una parte: Dovrò dunque passare, come i fiori appassiscono? Non resterà nulla del mio nome? Nulla della mia fama sulla terra? Almeno ci siano fiori! Almeno canti! Che potrà fare il mio cuore? Senza scopo, siamo venuti, senza scopo, siamo passati su questa terra.

Per gli antichi Egizi, la morte era talmente importante che oggi li ricordiamo principalmente per la mummificazione dei defunti e per l’architettura funeraria. Oltre le mastabe e le tombe ad ipogeo, i monumenti funebri più conosciuti sono le piramidi, enormi, eccezionali, gigantesche, che sembrano davvero collegare l’uomo al cielo.

Per la mitologia greca dopo la morte si finiva nel regno degli Inferi, il regno di Ade e Persefone, dove dimorava Cerbero, famelico cane a tre teste, e dove l’unica possibilità di pace eterna erano i Campi Elisi. Secondo l’induismo, dopo la morte, l’anima si reincarna in un altro corpo per espiare i peccati della sua vita terrena. Il buddhismo parla di una rinascita vera e propria: per diventare tanto puri da raggiungere il Nirvana non basta una sola vita, ne servono di innumerevoli. Era particolarissima l’idea della morte durante il Medioevo. In quel periodo, gran parte della popolazione sopportava carestie e pestilenze, e per essi la morte rappresentava la liberazione, il passaggio ad un mondo migliore. I Papi vendevano le indulgenze (parziali o plenarie), truffando così migliaia di credenti che temevano di vivere un inferno peggiore di quello che passavano durante la vita terrena. Più avanti, nel tardo Medioevo, si è sviluppata una particolare forma di iconografia (alla quale si ispira Saint–Saëns per la sua opera musicale “Danse Macabre”), chiamata danza macabra: venivano raffigurati degli scheletri, collegati alla morte, che danzavano accanto a re, contadini, persone di vari ceti sociali, per indicare che la morte è la conclusione di tutti quanti, e che di fronte ad essa siamo ugualmente vulnerabili. È un argomento ripreso da Totò nella sua “’A livella”: la morte è una livella che appara le differenze sociali.

La morte è il più grande enigma di tutta la storia dell’umanità. Quando moriamo davvero? Quando il nostro cuore cessa di battere o quando smettiamo di essere ricordati? Forse Alessandro Magno, Tutankhamon, Gandhi, Madame Marie Curie, non sono morti. Vivono ancora nei libri, nelle immagini che li ritraggono, nelle scoperte che hanno fatto. O forse moriamo così come la biologia dice: quando il cuore smette di battere e vengono meno le funzionalità vitali. In tal caso, gente come quella sopracitata, non è vissuta invano. E allora è questo l’unico modo per dare un senso alla morte: riempire la nostra vita di significato.

Elisabetta Spanò

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